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sabato 21 gennaio 2017

Metano gratis dagli scarichi fognari, è già realtà in Italia. Altro che “trivelle”, scarichi in mare e gasdotti!

Bresso, in Provincia di Milano, l’azienda che fornisce il servizio idrico integrato, recupera i reflui fognari per produrre “bio-metano a Km0“, ovvero metano prodotto con gli scarichi delle famiglie che in molti altri casi vengono normalmente scaricati in mare dopo la depurazione.
Ipotetici distributori potrebbero essere posizionati nel territorio. Solo l’impianto di Bresso potrebbe fornire20.000 km l’anno a più di 450 veicoli. Sotto questo aspetto, un progetto simile realizzato su larga scala a livello nazionale potrebbe consentire facilmente la distribuzione di metano per le auto e per le famiglie. Si risparmierebbe gas e combustibile per le auto, risolvendo la problematica della depurazione in un colpo solo, consentendoci di staccarci dalle multinazionali del petrolio e dei gasdotti. 
Diffondiamo.
Ne ha parlato anche il TGR Leonardo:

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venerdì 20 gennaio 2017

TERREMOTI INDOTTI DALLE TRIVELLAZIONI



di Gianni Lannes

Nel Mare Adriatico sono attualmente attive 12 concessioni per l’estrazione di idrocarburi, da parte dell’Eni e dell’Edison, mentre nella regione Marche, secondo i dati ufficiali ministeriali risultano ben 26 concessioni in uso. Simili azioni di rapina multinazionale possono aver provocato i sismi che stanno sconquassando l’Italia Centrale? In ogni caso, a parte i danni materiali, soltanto nelle Marche ci sono 25 mila sfollati.



Dal 1951, ovvero dall’incidente di Caviaga a quello dell’Amiata nel 2000 e in seguito in Basilicata a causa della frenetica estrazione petrolifera, fino ai giorni nostri, la letteratura scientifica in  materia di sismi indotti dall’uomo è a dir poco ponderosa, anzi incontrovertibile.









Secondo l’avvocato Marco Mori «Avremmo le tecnologie e le capacità per evitare tali tragedie. Ma ovviamente costa meno qualche morto che mettere in sicurezza vaste aree del nostro Paese. "Non ci sono i soldi". Quando la gente capirà che questa frase è un crimine, vivremo in un mondo migliore. Per chi oggi è morto non si può fare più nulla, per tutti gli altri si, basterebbe riscattare la nostra sovranità!».

«Fino a pochi anni fa, nessuno immaginava che l’uomo avrebbe potuto avere un tale impatto sui fenomeni geofisici» dice Christian Klose, ricercatore della School of Applied Science della Columbia University, (Usa). Una sua ricerca conclude che dal 19° secolo a oggi più di 200 terremoti con una intensità compresa tra i 4,5 e i 7,9 gradi della scala Richter si sono verificati in seguito a lavori di geoingegneria. Spiega Klose: «Molti dei terremoti in questione sono avvenuti in aree dove esistono estrazioni di carbone, gas o altri fluidi dal sottosuolo, e di solito non superano i 5 gradi Richter. Quando invece l’attività umana innesca il movimento di faglie, i sismi conseguenti possono essere molto più forti».


Nel portale del servizio sismico svizzero c’è una pagina scientifica si legge:

 «Terremoti causati dall'uomo. Il sottosuolo terrestre è in continuo movimento: ecco perché sulla Terra si registrano quotidianamente sismi di piccola e grande entità. Tuttavia non tutte le scosse presentano una causa naturale: alcune di esse sono causate dall’uomo. La comunità scientifica parla in questo caso di «sismi indotti» o di «sismicità indotta», un fenomeno spesso causato da interventi tecnici di grande portata effettuati nel sottosuolo. Si tratta, con qualche rara eccezione, di terremoti di piccola entità pressoché impercettibili in superficie. In Svizzera i terremoti causati dall’uomo sono noti principalmente per il loro legame con i progetti geotermici: nel 2006 l’acqua iniettata ad alta pressione nel sottosuolo ha causato a Basilea un sisma di magnitudo 3.4 mentre nel 2013 si è verificato un terremoto di magnitudo 3.5 nei pressi di San Gallo. Tuttavia, anche altri utilizzi del sottosuolo possono causare delle scosse sismiche, ad esempio le iniezioni di CO2 o di acque di scarico, l’estrazione – convenzionale o meno – del petrolio o del gas naturale tramite fracking oppure i progetti dell’industria mineraria o la costruzione di tunnel. Anche i cambiamenti operati dall’uomo sulla superficie terrestre possono dar luogo a terremoti, ad esempio quando i laghi artificiali si riempiono per la prima volta d’acqua».


Ecco, di seguito, tradotto in italiano, un servizio giornalistico pubblicato il 28 marzo 2016 dal Washington Post (famoso per aver fatto scoppiare lo scandalo Watergate) uno dei più autorevoli quotidiano nordamericani. Un articolo ripreso anche dal Chicago Tribune e dal Boston Globe.
«I terremoti sono una calamità naturale, tranne quando sono causati dall’uomo. Negli Stati Uniti il settore petrolifero e quello del gas hanno adottato in modo massiccio la tecnica della fratturazione idraulica, o fracking, che serve a frantumare i cosiddetti shale, un tipo di rocce sedimentarie composte da fango e minerali argillosi che si trovano nel sottosuolo, ed estrarre petrolio e il gas di scisto. Il processo però produce una quantità incredibile di acque reflue contaminate da agenti chimici, e anche la tecnica della perforazione orizzontale per l’estrazione del petrolio può produrre un’enorme quantità di acqua naturale salata indesiderata. Gli operatori del settore smaltiscono queste acque reflue immettendole in profondi pozzi, ma provocando dei movimenti nel sottosuolo. Lunedì 28 marzo la Geological Survey degli Stati Uniti (USGS), l’agenzia scientifica del governo che si occupa di studi sul territorio e rischi naturali, ha pubblicato per la prima volta una mappa del rischio sismico che prende in considerazione sia i terremoti naturali che quelli “indotti” dall’uomo. La mappa e il rapporto che l’accompagna evidenziano come in alcune aree nel centro degli Stati Uniti il rischio sismico sia pari a quello del suolo della California, di cui è tristemente nota l’instabilità. Secondo lo USGS circa sette milioni di persone vivono in zone esposte al rischio dei terremoti indotti. Gli stati che hanno il maggior rischio di essere colpiti da terremoti causati dall’uomo sono Oklahoma, Kansas, Texas, Arkansas, Colorado, New Mexico, Ohio e Alabama. La maggior parte di questi terremoti sono relativamente deboli, intorno a tre gradi di magnitudo, ma se ne sono registrati anche di più potenti, come il terremoto di magnitudo 5,6 in Oklahoma del 2011, legato allo smaltimento per iniezione delle acque reflue. Lunedì scorso alcuni scienziati hanno detto di non sapere se i terremoti indotti siano in grado di arrivare solo fino a un certo limite: è ancora un’area di ricerca. Nella preistoria l’Oklahoma è arrivato ad avere terremoti di magnitudo sette. Non è ancora chiaro se la nuova ricerca porterà a un cambiamento nelle pratiche del settore. In Oklahoma, per esempio, ci sono solo uno o due terremoti naturali all’anno, ma negli ultimi dieci anni, da quando le attività di fracking e di perforazione orizzontale (e la conseguente immissione di acqua nel sottosuolo) sono diventate comuni, se ne sono registrati a centinaia. «Prendendo in considerazione anche gli eventi causati dall’uomo, la nostra valutazione del rischio sismico è aumentata sensibilmente in alcune zone degli Stati Uniti», ha detto in un comunicato Mark Petersen, capo del progetto per la mappatura del rischio sismico dell’USGS. Il rapporto, che si basa sull’attività sismica recente, è solo una valutazione del rischio per un anno. Gli scienziati sostengono che i casi di terremoti indotti del recente passato potrebbero probabilmente ripetersi nel prossimo futuro. Le mappe precedenti dell’USGS non includevano eventi causati dall’uomo. Nel 2014, per esempio, la mappa assegnava all’area tra le città di Dallas e Fort Worth, in Texas, un rischio molto basso di terremoti naturali. Con la nuova mappa però, che tiene conto anche dei sismi indotti, l’USGS ha calcolato nell’area un rischio dieci volte superiore. Nel gennaio del 2015 la faglia che attraversa Dallas e la vicina città di Irving ha provocato un terremoto di magnitudo 3,6, a meno di dieci chilometri di distanza da un pozzo di iniezione. Alcuni ricercatori stanno studiando quel terremoto, ha raccontato Heather R. DeShon, una sismologa della Southern Methodist University. «La nuova mappa serve per ricordare alle popolazioni locali nelle aree recentemente colpite da sismi che è meglio essere pronti a sentire la terra tremare di nuovo», ha detto DeShon, che non ha partecipato al progetto. Secondo il Dallas Morning News uno studio non ancora pubblicato dell’ente federale per la gestione delle emergenze degli Stati Uniti mostrerebbe come nello scenario peggiore un terremoto di magnitudo 5,6 a Dallas potrebbe danneggiare 80mila edifici, farebbe crollare gli argini e provocherebbe danni per 9,5 miliardi di dollari. L’elemento più notevole della nuova mappa dell’USGS è la macchia rosso scuro nell’area a centro-nord dell’Oklahoma, che quest’anno è già stata colpita da un terremoto di magnitudo 5,1. «Il mio primo pensiero è stato: “Oddio, l’Oklahoma e più rosso della California”», ha scritto in un’email la geologa dello USGS Susan Hough dopo aver visto la mappa della sua agenzia per la prima volta lunedì scorso. Calcolare il rischio sismico di un’area specifica in un dato momento è difficile, anche perché i terremoti naturali sono imprevedibili. Come lo è il settore petrolifero e del gas. Con il calo del prezzo del petrolio, di recente le aziende specializzate hanno diminuito le perforazioni. Il calo di produzione potrebbe spiegare la diminuzione del numero di terremoti negli ultimi mesi, ha detto Rex Buchanan, direttore del Kansas Geological Survey, un dipartimento di ricerca della University of Kansas. Secondo Buchanan, anche le nuove norme degli stati americani per la gestione dello smaltimento delle acque reflue potrebbero essere utili. Salvo poche eccezioni, le regioni centrali e orientali degli Stati Uniti non sono solitamente considerate zone sismiche. Ma questo non significa che non ci siano delle faglie anche nel sottosuolo delle regioni più calme. «Le faglie sono praticamente dappertutto. Gli Stati Uniti si sono formati nel corso di oltre un miliardo di anni, e durante il processo di formazione sono state prodotte moltissime faglie», ha raccontato Michael Blanpied, coordinatore associato dello Earthquake Hazards Program dello USGS. I liquidi immessi nei profondi pozzi di iniezione non lubrificano le faglie, ma piuttosto aumentano la pressione esercitata su di loro separandone le pareti, ha sottolineato Blanpied».

riferimenti:
























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martedì 5 aprile 2016

Ciò che si nasconde DAVVERO sotto le trivelle (e che quasi nessuno dice)

Milazzo 2L’ing. Angelo Parisi, membro del Comitato Scientifico del CETRI, ci spiega argutamente la vera ragione per cui i petro gasieri hanno voluto la norma che permette l’allungamento della concessione fino ad esaurimento del giacimento. Perchè hanno una “franchigia al di sotto della quale non pagano royalties, e quindi hanno tutto l’interesse ad estrarre a ritmi bassissimi per non sforare la franchigia, e quindi preferiscono sforare i 30 anni della concessione. Questa franchigia generosamente concessa dallo Stato gli permette peraltro di non pagare royalties che sono già vergognosamente basse. Leggere per credere. Il CETRI ringrazia Angelo per il suo infaticabile preciso e costante lavoro di esplorazione e scoperta della verità nel mondo dell’energia.
Ciò che si nasconde DAVVERO sotto le trivelle (e che quasi nessuno dice)
Il governo italiano, con una scelta discutibile, ha fissato al 17 aprile la data del referendum abrogativo sulle piattaforme petrolifere promosso da 9 regioni italiane.
KUWAIT-10010, 1991, final print_milan Ahmadi Oil Fields, Kuwait, 1991. National Geographic, August 1991, The Persian Gulf: After the Storm. Aliens on a fiery plain, Environmentalists Rick Thorpe and Michael Bailey of Earthtrust examine a field where the ground has been encrusted with oil. National Geographic, August 1991
L’oggetto del referendum è la norma introdotta con l’ultima finanziaria che consente alle società concessionarie del diritto di coltivazione dei giacimenti petroliferi a mare entro le 12 miglia marine di poter sfruttare i giacimenti fino al loro esaurimento, anche se entro le 12 miglia resta vietata la concessione di nuove concessioni di ricerca e coltivazione.
Per i fautori del no questa norma è logica in quanto per loro non ha senso “tappare” il foro mentre c’è ancora gas e petrolio da estrarre e inoltre dicono che una vittoria dei si sarebbe pericolosa in quanto bloccherebbe un settore in cui siamo all’avanguardia e si creerebbero migliaia di disoccupati. Insomma nulla di nuovo. Quando si tratta delle fonti fossili, ogni modifica che non piace ai signori del petrolio viene immediatamente bloccato un settore in cui siamo all’avanguardia, produce migliaia di disoccupati, genera piaghe bibliche e catastrofi galattiche…. Il solito ricatto  contro lavoro, ambiente e salute.
havenAltri argomenti citati dai fautori del no riguardano l’aumento delle importazioni dall’estero con il conseguente incremento del numero di petroliere che circolano sui nostri mari e approdano sui nostri porti. In pratica sostengono che gli effetti sull’ambiente provocati dallo stop alle piattaforme entro le 12 miglia marine sarebbero peggiori di quelli che produrrebbero delle piattaforme vecchie di 40 o 50 anni che pompano gas e petrolio dal fondo del mare.
Inoltre i fautori del no ricordano che la vittoria del si al referendum non comporterebbe un divieto alle trivelle e nemmeno alle piattaforme oltre le 12 miglia marine. Per questo accusano i comitati No Triv di truffare gli elettori.
Ma è veramente così?
Assolutamente NO!
Intanto i signori del no devono mettersi d’accordo con loro stessi. Infatti da una parte sostengono che questo referendum è inutile e non produrrà uno stop alle piattaforme e alle trivelle e che quindi presentarlo in questo modo è falso e truffaldino, mentre dall’altra parte dicono che una vittoria dei SI produrrebbe una catastrofe nazionale. Insomma devono spiegare come può essere che un referendum inutile e che non stoppa affatto piattaforme e trivelle, possa bloccare l’intero settore, far scappare tutte le società petrolifere dall’Italia, far perdere miliardi di investimenti, migliaia di posti di lavoro, aumentare le importazioni di petrolio e gas dall’estero e produrre un incremento dei costi della bolletta energetica?Kerkenna1
In pratica è come se dicessero che un moscerino che si posa su un grattacielo ne provoca il crollo.
Inoltre i signori del no sostengono che dalle piattaforme si estrae prevalentemente gas, ma poi dicono che la vittoria del si producendo uno stop immediato alle estrazioni, farebbe si che aumenti il traffico di petroliere. Tutto questo è puro allarmismo verbale. Innanzitutto vorrei ricordare che il gas non arriva con le petroliere, ma con i gasdotti, e (in rarissimi casi) con le navi gasiere  in forma di Gas Naturale Liquido (LNG). Quindi non si vede che ci azzeccano le petroliere. Diciamo che i fautori del no sono un tantino confusi. In secondo luogo in caso di vittoria dei SI gli impianti non verrebbero bloccati immediatamente ma a termine, con l’arrivo a scadenza delle concessioni.
Ma allora perché i signori del no raccontano queste falsità? E cosa si nasconde veramente sotto il loro desiderio di procrastinare le concessioni?
Intanto è bene chiarire subito che il referendum interesserà in modo diretto solo diciassette concessioni da cui si estrae il 2,1 % dei consumi nazionali di gas e  lo 0,8 % dei consumi nazionali di petrolio gas. Bruscolini che anche se dovessero venire a mancare da un giorno all’altro, come sostengono i signori del no, (ma, ripetiamo, NON è così)  non succederebbe nulla di grave e al calo di estrazioni si potrebbe benissimo fare fronte con un minimo di risparmio energetico (quindi incentivando un comportamento virtuoso. Certo se invece vogliamo continuare a sprecare energia prodotta con fonti fossili, allora non basteranno tutti i giacimenti del mondo a coprire il fabbisogno.
milazzoMa, come detto, la vittoria del si non comporterà uno stop immediato delle piattaforme che, purtroppo, continueranno a restare al loro posto fino alla scadenza della concessione e quindi non c’è alcun pericolo per il fabbisogno nazionale e nessuna perdita di posti di lavoro, che sono pochissimi, spesso di tecnici specializzati stranieri, e che scadrebbero al termine del contratto.
Quindi si ritorna alla domanda posta in precedenza: cosa temono i fautori del no?
Temono due cose.
Primo, che passi il messaggio che possiamo fare a meno del petrolio e che possiamo produrci l’energia di cui abbiamo bisogno in altro modo senza continuare a dare soldi ai petrolieri.
Secondo, che passi un altro principio, ben più importante per loro, quello per cui le concessioni scadono.
Infatti ci sono alcune cose che i signori del no ci tengono nascoste tentando di distogliere l’attenzione da esse per puntarla verso la catastrofe prodotta dalla vittoria del si e la perdita di migliaia di posti di lavoro.
Le paroline magiche che non pronunciano mai i signori del no sono due: royalty e franchigia.
Cosa sono le royalty?
Sono delle quote in denaro che le compagnie petrolifere versano ogni anno allo stato, alle regioni e ai comuni per lo sfruttamento delle risorse petrolifere. Infatti in Italia le risorse petrolifere sono un bene indisponibile dello Stato, questo vuol dire che il petrolio e il gas dei giacimenti è di proprietà pubblica: tutti noi siamo proprietari di una quota di petrolio e di gas stoccati nei giacimenti.
Lo stato però non si occupa direttamente di estrarre queste risorse e “concede” dei titoli di sfruttamento di tali risorse a dei soggetti privati, i quali sostengono i costi per la ricerca e per la costruzione delle infrastruture necessarie alla loro estrazione. In cambio pagano ai “proprietari” delle risorse, noi tutti, una quota percentuale del valore di quanto estratto.
Il problema riguarda la percentuale che viene pagata. Tale percentuale, come si può vedere dal sito del Ministero dello Sviluppo Economico, è pari al 7% per l’estrazione di gas e di olio a terra e del 4% per l’estrazione di olio in mare, a cui sommare una quota del 3% da destinare al fondo per la riduzione del prezzo dei prodotti petroliferi se la risorsa è estratta sulla terraferma o per la sicurezza e l’ambiente se estratti in mare. (http://unmig.mise.gov.it/dgsaie/royalties/indicazioni_destinazione.asp)
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Se si pensa che in altri Paesi le royalty difficilmente scendono al di sotto del 30%, si capisce benissimo il grande regalo che noi facciamo ogni anno ai petrolieri.
La seconda parolina magica, come detto, è franchigia.
Che cos’è?
La franchigia è una quota annua di gas e petrolio estratti da ogni giacimento sulla quale non si calcolano royalty.
Sempre dal sito del Ministero dello Sviluppo Economico si evince che le franchigie sono pari a:
  • 20.000 t di petrolio estratto a terra
  • 50.000 t di petrolio estratto in mare
  • 25 Milioni di mc di gas estratto a terra
  • 80 Milioni di mc di gas estratto in mare
Questo significa che se i titolari delle concessioni ogni anno e da ogni giacimento estraggono un quantitativo di gas e di petrolio pari o inferiore alle franchigie non versano nessuna royalty allo stato.
E naturalmente l’interesse dei titolari delle concessioni è quello di pagare meno royalty possibile. Ecco perché dando loro la possibilità di prorogare la durata delle concessioni fino all’esaurimento dei giacimenti, non si fa altro che dir loro: “estraete meno che potete e non versate nemmeno un Euro di royalty, tanto avete tutto il tempo che volete per sfruttare il giacimento”.
A tutto questo, come se non bastasse, bisogna aggiungere il fatto che in pratica a comunicare le quantità di petrolio e gas estratte sono gli stessi concessionari con un’autocertificazione che nessuno controlla.
Non a caso nel 2010 la Cygam Energy, una società petrolifera canadese, in un suo dossier raccomandava di investire in Italia perché “la struttura italiana delle royalty è una delle migliori al mondo”. Tradotto: “Andiamo a trivellare in Italia perché gli italiani sono degli idioti!”
golfo-del-messico-HalliburtonDa quanto detto si capisce come questa norma sia tutta a favore dei titolari delle concessioni e poco della collettività che oltre a incassare poco o nulla dallo sfruttamento di un bene indisponibile dovrà subire tutte le conseguenze derivanti dalle attività di estrazione, incidenti compresi.
Altro che benessere per la collettività.
Ecco cosa si nasconde veramente sotto le trivelle ed ecco il motivo per cui il 17 aprile bisogna andare a votare e votare SI!

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mercoledì 9 marzo 2016

Il mare attorno alle trivelle è inquinato. Trovati metalli pesanti pericolosi per l’uomo

By  on 8 marzo 2016
trivelle

A circa un mese dal Referendum abrogativo che ci porterà a dire SI o NO alle trivelle, Greenpeace divulga i dati, finora sconosciuti, sullo stato di salute dei mari attorno agli impianti.

Mentre l’Italia si prepara ad andare al voto contro le trivelleGreenpeace diffonde nuovi preoccupanti dati sullo stato di contaminazione dei mari attorno agli impianti.
Le analisi sono state effettuate da Ispra, un istituto di ricerca pubblico sottoposto alla vigilanza del ministero dell’Ambiente, su committenza di Eni, proprietaria delle piattaforme oggetto di indagine, e provengono da una fonte ufficiale: quella del Ministero dell’Ambiente.
I dati si riferiscono al triennio 2012-2014 e dimostrano come i mari italiani in prossimità delle piattaforme estrattive non godano affatto di buona salute.
Come riporta Repubblicadue terzi (il 76% nel 2012, il 73,5% nel 2013, il 79% nel 2014) dellepiattaforme presenta sedimenti con un inquinamento oltre i limiti fissati dalle norme comunitarie per almeno una sostanza pericolosa. I parametri sono oltre i limiti per almeno due sostanze nel 67% degli impianti nei campioni analizzati nel 2012, nel 71% degli impianti nel 2013 e nel 67% nel 2014.
È stato grazie a Greenpeace, e all’istanza pubblica presentata lo scorso luglio per chiedere al Ministero di prendere visione dei dati, che i risultati del monitoraggio dell’Ispra sono venuti alla luce.
Purtroppo, però, il quadro dipinto dall’organizzazione ambientalista risulta essere incompleto, visto che delle 130 piattaforme operanti in Italia, sono stati consegnati a Greenpeace solo i dati inerenti agli impianti attivi in Adriatico che scaricano direttamente in mare, o iniettano in profondità le acque di produzione.  34 strutture, un po’ pochino. Un buco che, secondo l’organizzazione, potrebbe nascondere qualcosa di ancora più grave: “La mancanza di dati per queste piattaforme può essere dovuta all’assenza di ogni tipo di controllo da parte delle autorità competenti o al fatto che il ministero ha deciso di non consegnare a Greenpeace tutta la documentazione in suo possesso“. Si legge nel rapporto Trivelle fuorilegge. Uno studio sull’inquinamento provocato dalle attività estrattive in Adriatico.

Tra le sostanze rinvenute che superano più di altre i valori definiti dagli standard di qualità ambientale ci sono metalli pesanti (cromo, nichel, piombo e talvolta anche mercurio, cadmio e arsenico), idrocarburi (fluorantene, benzofluorantene, enzofluorantene, enzoapirene) e idrocarburi policiclici aromatici.
Alcune di queste sostanze sono cancerogene e in grado di risalire la catena alimentare raggiungendo così l’uomo e causando seri danni al nostro organismo“, afferma il rapporto.
La relazione tra l’impatto dell’attività delle piattaforme e la catena alimentare emerge più chiaramente dall’analisi dei tessuti dei mitili prelevati presso le piattaforme.
Dalle indagini condotte, risulta che circa l’82% dei campioni di mitili raccolti nei pressi delle piattaforme presenta valori più alti di cadmio rispetto a quelli misurati nei campioni presenti in letteratura; altrettanto accade per il selenio (77% circa) e lo zinco (63% circa). Per bario, cromo e arsenico la percentuale di campioni con valori più alti era inferiore (37%, 27% e 18% rispettivamente).
Molti di questi metalli ritrovati nei tessuti dei mitili, però, possono raggiungere l’uomo risalendo la catena alimentare. Alcuni di questi, come il cadmio e il mercurio, come ben sappiamo sono particolarmente tossici per gli organismi viventi e per l’uomo stesso.
Le piattaforme, evidentemente, sono pericolose a prescindere dai grandi disastri che attirano l’attenzione dei media e ciò dovrebbe farci riflettere rispetto alle ipotesi di proliferazione delle trivelle caldeggiate dal governo italiano“, ha concluso Greenpeace.
Un tassello in più che dovrebbe farci arrivare alle urne con le idee chiare su cosa debba chiedere, e pretendere, da questo Governo il popolo italiano.
(Foto: © Greenpeace) ambientebio.it

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